La pubblicità gioca un ruolo importante nella diffusione delle arti marziali in Occidente, le pratiche sono state mercificate e le narrazioni cinematografiche hanno contribuito a diffondere un’immagine mitica e alle volte falsata. Grazie alla produzione cinematografica abbiamo imparato a riconoscere fluidi movimenti e colpi efficaci grazie alle competenze di attori praticanti come Bruce Lee e Jackie Chan. Le scuole venutesi a formare in Occidente trasmettono gli insegnamenti di maestri arrivati dalla Cina, rifugiatisi in Europa e in America a causa delle persecuzioni del governo cinese maoista che aveva estirpato ogni tipo tradizione e con essa, i saperi clanici che comprendevano le pratiche e i rituali disciplinari che durante il corso della storia cinese si erano chiusi in piccoli gruppi, dando vita a differenti scuole, ognuna portavoce dei propri segreti trasmessi a pochi fortunati adepti.

Oggi la pratica tradizionale viene vissuta e trasmessa come disciplina che racchiude in sé princìpi, non solo tecnici ed estetici, ma anche “spirituali” e morali. Taiji, qigong, wushu, gongfu, sono parole che ormai fanno parte del linguaggio occidentale contemporaneo pur riconoscendone la provenienza orientale. Ai praticanti è ormai chiaro che il comun denominatore per tutte queste pratiche è il gongfu. Con questo termine ci si riferisce a qualsiasi tipo di lavoro che sia eseguito con abilità, costanza ed impegno. La parola gongfu quando è seguita dal termine wushu ne indica l’aspetto marziale. Secondo l’interpretazione dei caratteri cinesi tale parola è da interpretare come “arte di opporsi all’azione della lancia”, dove wu rappresenta il coraggio e il prode è colui che può tener testa alla violenza senza servirsene; i caratteri che la rappresentano infatti, ricordano una mano che ferma una lancia.

Esiste poi anche un aspetto performativo di queste abilità marziali. Lo storico Peter Lorge della Vanderbilt University, nonché praticante decennale di arti marziali, ha scoperto che il termine wu era già utilizzato nel III secolo a. C. e indicava tanto la lotta quanto il ballare. I movimenti durante un assalto potevano paragonarsi al ritmo tambureggiante di una danza, le aree importanti di questi aspetti erano la musica e i riti. Tamburi e gong preparavano lo stato mentale e diventavano mezzi di comunicazione, la musica aveva il potere di coordinare le emozioni di grandi gruppi, fossero essi pronti per la battaglia o per la scena, insegnava ad agire nell’unità. Le danze marziali divenivano gesti formalizzati che replicavano e si ispiravano ai movimenti utilizzati nelle battaglie. Era la violenza la linea di separazione che consentiva l’utilizzo di tali pratiche come mezzo offensivo o la preferenza all’azione emozionale da sfruttare nel ballo e nel teatro.

Il governo cinese ha stabilito il termine wushu per la sua versione sportiva agonistica delle arti marziali cinesi. In epoca moderna è stata ripresa dalla Cina popolare come termine unico per definire le arti marziali cinesi.

Le scuole occidentali che oggi diffondono e trasmettono queste arti utilizzano il tema della tradizione col fine di attirare possibili allievi, guardano al passato come custode di autenticità. Attraverso una ricostruzione storica però l’autenticità di tali pratiche non si trova all’interno di un “contesto tradizionale”.

L’autenticità di una pratica quindi non può essere provata per mezzo della tradizione ma deve essere testata attraverso l’efficacia. Partendo da pratiche di combattimento, la violenza é stata determinante nell’affermazione e diffusione delle arti marziali nella società, come strumento di governo, in senso weberiano, una caratteristica distintiva dello stato, sotto forma di monopolio nell’uso della forza lecito.

È a partire da questo che emerge il tema dell’autenticità, le pratiche erano autentiche poiché venivano testate in guerra e l’efficacia poteva essere provata solo in combattimento e quindi il colpo doveva contemplare l’uccisone. Oggi però l’autenticità non può riversarsi sulla ricerca di efficacia in combattimento. Lo stile tanglang, la mantide religiosa, per esempio, è uno stile aggressivo che tende ad uccidere, il lavoro trasmesso comprende tecniche che si ispirano alle movenze e atteggiamenti dell’insetto, mirano a colpire i punti vitali del corpo, col fine di destabilizzare, mobilizzare e uccidere. Una delle tecniche prende il nome tian suei, le tempie da colpire co le dita. Gli allenamenti e gli esercizi modellano il corpo come una vera e propria arma. Colpire questi punti significa mirare ad uno scopo preciso. Le dita si condizionano, ossia viene rinforzata la struttura ossea in modo da rendere gli arti letali, come tutto il resto del corpo, diventano più efficaci per far cadere l’avversario nell’immediatezza del colpo. Esiste però anche una trasmissione dal punto di vista medico e salutare, uno stesso punto vitale lo si apprende dal punto di vista energetico e quindi in funzione di cura e massaggio. Oggi, per la maggior parte, è questa l’intenzione con cui si coltivano le pratiche orientali, per una ricerca di equilibrio mentale e benessere fisico. È proprio su quest’ultimo punto che si viene ad intrecciare indissolubilmente il qigong, ginnastica energetica o yoga cinese, le arti interne, taiji, baguazhang e xingy, con tutti gli stili esterni che esistono, tanglang, wing tsun, hungar, ecc. Queste pratiche sono apprese e trasmesse una alla volta, ma l’una non può dirsi migliore o più autentica di un’atra, né possono dirsi divisibili o indissolubili.

Interessanti le parole del Maestreo Davide Milazzo della Scuola Libertao che commenta il mondo delle arti marziali odierne:

“Anche nel mondo delle arti marziali, come in tutto il resto, ci sarebbe bisogno di ribelli, sognatori, iconoclasti. Questo fu Bruce Lee, da buon figlio degli anni ’60/’70, gli anni dei movimenti giovanili, della contestazione, del rinnovamento generale. Con indomito spirito ribelle, da Taoista, Lee contestò i principali dogmi già allora ammuffiti della rigidità confuciana: strutture gerarchiche legittimate in nome del tradizionalismo, in cui obbedienza e conformismo all’ortodossia delle scuole prevaleva sulla ricerca della libertà come scopo e metodo, oltre ogni discorso tecnico.
Non è un caso che in questi anni in cui in generale si respira un vento fetido di restaurazione di principi autoritari, in cui sbucano dalle pattumiere della storia nuovi ducetti che soffiano su concetti come razza e nazionalismo…lo stesso degrado culturale avviene nel mondo delle arti marziali tradizionali. “Gran Maestri” che in nome di lignaggi e ortodossie e segretezze intrappolano lo sviluppo dell’ arte, ma soprattutto si impossessano dello spirito degli allievi, facendone dei soldatini la cui identità si definisce sempre col solito discorsetto dualista: ‘ il nostro è lo stile più efficace e vero perché ha il timbro della tal famiglia, il nostro è il maestro più competente” ecc.

Personalmente credo che la Via del guerriero sia un percorso di libertà, in cui le persone diventino non adulatori, non soldatini gerarchizzati e proni, ma sempre più responsabili del proprio destino. Togliere, pulire, affrontare i nemici interni, non mettere continuamente catene per alimentare maestroni superegoici e il loro portafoglio. Trovare ciò che unisce e rende fratelli i praticanti al di là degli stili e delle appartenenze, non costruire sette in cui l’ identità si costruisce in contrapposizione al resto del mondo. Abbiamo bisogno di spirito eterodosso, aperto alle contaminazioni, senza nessun santone o duce frustrato. C’è bisogno di spiriti liberi  se è vero come credo che le arti marziali siano uno dei modi per contribuire ad una Umanità migliore.”

 

Per domande, curiosità, informazioni scrivere a visioneantropologica@libero.it

 

Ester Maltese